- Iniziamo parlando del titolo, Porn Food. Com’è nato?
Il titolo non ha avuto bisogno di un grande sforzo di
fantasia, vista l’onnipervasiva insistenza di certe immagini strettamente
correlate al porno. Apparire, condividere, taggare, linkare, sono tutti verbi
che, oltre ad avere un nauseante odor di posticcio, tradiscono l’urgenza di un
riconoscimento, di un linguaggio semplificato che qualsiasi habilis possa comprendere senza troppi
problemi. Sono anche verbi assolutamente insopportabili – specie gli ultimi due
- che hanno una stretta parentela con
concetti come inautenticità, volgarità, ragù di seitan, violenza. Non riesco a
immaginarmi diversamente il cervello, o l’amorfa materia grigia che ne fa le
veci, nella testa di chi pubblica immagini assai discutibili del compleanno
della nonna di 128 anni che soffia le candeline con la bava alla bocca e la
faccia di un lemure tramortito, o di chi mostra orgogliosamente WWW il taglio
dell’appendicite in ospedale o un uramaki al tonno fatto in casa. Si pensi
anche a chi usa Facebook con roba tipo sei, sette profili diversi, utilissimi
per le più sgradevoli o penalmente rilevanti attività. In ogni caso siamo di
fronte al crollo della dimensione dell’io, la frantumazione del confine fra me
e l’altro – dato che tutto dev’essere condiviso -… Food porn? O forse
schizofrenia?
-
Perché hai scelto di ambientare la storia in una discarica?
Ah, questa è facile! Pensavo che non ci fossero troppi
salti logici fra l’immagine di una distesa di copertoni incendiati o carcasse
di stampanti Samsung e un piatto di ceci al curry su Instagram. La cosa che
accomuna queste idee è che sono parte di quel processo di “feticizzazione dello
scarto”, di pubblicizzazione del rifiuto, dell’inessenziale. Aspetti, caratteristiche,
modalità della vita di tutti i giorni che per loro natura dovrebbero essere
privati e che invece vengono condivisi acriticamente per sentirsi sollevati da
quel senso di inutilità che ci opprime. I social hanno dato la possibilità
anche al più inutile dei coglioni di ricevere apprezzamenti per i calzini – di
solito orrendi - che indossa, ma, domanda, se la vostra vita fa schifo non
sarebbe meglio prenderne serenamente atto e spararsi in bocca invece di
continuare a illudersi di avere dei finti estimatori pronti a metterti un
mipiace a qualsiasi cazzata?
-
Prima di Porn Food, con Leone Editore avevi già pubblicato un altro
romanzo, Plastic Shop. C’è qualche elemento in comune tra questi due?
Entrambi si muovono sul territorio del desiderabile, o
meglio, di ciò che riteniamo possa esser desiderabile. In Plastic shop è stato estremamente divertente descrivere il
comportamento di masse umane che si azzuffano per una caffettiera Bialetti o
roba del genere. In Porn food i
meccanismi dell’esibizionismo sono gli stessi, questa volta declinati sotto
forma di ansia da prestazione digitale e spirito da voyeur. Non c’è nessuna
differenza fra l’onanismo di chi decide di sentirsi fashion con un eyewear
Dolce & Gabbana o chi addobba il suo profilo Facebook con tanti cuoricini,
aforismi di Osho e immagini di gente che fa Yoga di borgata.
-
Qualche dettaglio sui personaggi: chi sono e come ti sono venuti in
mente?
Ognuno di essi contiene quella giusta dose di irrealtà che gli permette di essere credibile. Mi piaceva l’idea di considerare l’intero romanzo come la drammatizzazione di una cartella clinica, ed è chiaro che ogni personaggio assume una caratteristica ben precisa in questo senso. Al centro resta comunque la voce del protagonista, la cui vera natura verrà spiegata però solo nel finale. Intorno a lui fioriscono di continuo presenze che “remano contro”, un po’ come quelle “voci di dentro” di eduardiana memoria e che quasi ostacolano la trama principale. Sono voci antinarrative, che fanno resistenza, indisciplinate e volutamente disarmoniche, a ricordare che nei libri come nella vita l’idea stessa di concepire una “storia” deve faticare parecchio prima di affermarsi sull’irragionevole.
Ognuno di essi contiene quella giusta dose di irrealtà che gli permette di essere credibile. Mi piaceva l’idea di considerare l’intero romanzo come la drammatizzazione di una cartella clinica, ed è chiaro che ogni personaggio assume una caratteristica ben precisa in questo senso. Al centro resta comunque la voce del protagonista, la cui vera natura verrà spiegata però solo nel finale. Intorno a lui fioriscono di continuo presenze che “remano contro”, un po’ come quelle “voci di dentro” di eduardiana memoria e che quasi ostacolano la trama principale. Sono voci antinarrative, che fanno resistenza, indisciplinate e volutamente disarmoniche, a ricordare che nei libri come nella vita l’idea stessa di concepire una “storia” deve faticare parecchio prima di affermarsi sull’irragionevole.
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Il finale è davvero inaspettato, puoi dirci qualcosa in proposito?
Sul finale non mi sbilancerò, dato che mi sono già
arrivate diverse reazioni da diversi lettori che variavano da un “Wow”, un “Però!”
con tanto di pollice alzato, un “Farabutto!”. Sarei comunque uno sciagurato se
ora mi mettessi a darvi troppe indicazioni, per cui, visto che c’è il trucco,
me la caverò alla meglio ponendovi io stesso una domanda: “Siete davvero sicuri
che in questo momento vi state leggendo una mia intervista o state pensando ai
fatti vostri?”
È una lettura che non consiglierei a nessuno, visto che la
maggior parte della gente ha dei gusti orribili. Prevale infatti l’idea che
leggere un “buon libro” (!) sia un passatempo, un rispecchiarsi nella storia di
un personaggio e trovare elementi di conforto. A me sta sulle palle l’idea
stessa di “storia”. Siamo sicuri che anche nella vita di tutti i giorni sia
così facile isolare dei fatti discreti e concatenarli in una successione
causale fatta di un inizio, uno svolgimento e una fine? O tutti questi eventi
non sono per se stessi immersi in un magma impregnato di accidentalità,
imprevisti, retroflessioni… di quello che una certa fenomenologia francese
chiamava l’”il’y a”. Isolare alcuni
“fatti”, metterli in relazione fra di loro ed estrapolarne un senso è il più
stupido pregiudizio storicistico. Certo, è grazie a questo tipo di cultura se
abbiamo Omero e ci siamo fatti un’idea di cosa significhi la narrazione. Ma non
bisogna dimenticare le sabbie mobili, l’άπειρον da cui tutto ciò proviene. Come dire che la parola si
basa, si fonda su uno sguardo muto, un silenzio originario che è esso stesso il
principio di ogni linguaggio. Penso di essere stato estremamente chiaro, per
cui tornando alla domanda consiglierei a chiunque di piantarla una buona volta
con queste puttanate del rispecchiamento, dell’immedesimazione, del “vivere le
stesse emozioni di quello là”. Non potrà mai essere un buon lettore chi è
animato da questa zoppa nostalgia di una mimesis inautentica.
-
Hai già in mente qualche idea per il prossimo libro?
Il prossimo libro è già pronto, ma non solo! Chi l’ha
letto ne è talmente entusiasta da farmi dubitare d’averlo scritto come volevo.
- Ci sono degli autori a cui ti
ispiri?
Il contributo altrui nella
stesura di un libro è inevitabile e direi assai prezioso. Parlando di
paradigmi, perché di questo si tratta, non posso nascondere di essermi ispirato
a un certo esistenzialismo francese, esistenzialismo che ha i suoi punti di
rilievo ne La nausée di Sartre e L’étranger di Camus. È altrettanto vero
però che una riassunzione di queste tematiche in un’epoca dominata da fashion o
food blogger sfocerebbe nell’assurdo. Ma attenzione, non quell’assurdo intorno
al quale si arrovellavano i succitati, bensì a un suo sottoprodotto
consumistico e ridicolo. Per questo motivo è stata utilissima la lezione del
postmodernismo, che ha rovesciato, ibridato e amalgamato tante di quelle
categorie una volta ritenute sacre. Per dirla in altre parole “ho sciacquato i
panni nell’Hudson”, ed è stata un’esperienza illuminante. Un po’ come
immaginare quel vecchio babbeo di Sartre che con quattro profili Facebook si
mette a stalkerizzare le sue allieve inneggiando al materialismo storico.
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