Dopo
il temporale il bosco era avvolto dagli odori dell’autunno; le
foglie si ammucchiavano sul terreno, macchie gialle e arancio,
ramoscelli e gusci di castagne.
L’aria
frizzante le solleticava le braccia nude e le guance. Solo la natura
riusciva a placare il suo bisogno di appartenere a qualcosa, quando
il mondo circostante sembrava essere impazzito. File chilometriche
nei centri commerciali per acquistare l’ultimo
I-Phone,
amicizie e amori virtuali, emozioni preconfezionate come scatole di
cioccolatini stantii.
La
magnificenza delle querce la faceva sentire piccola e insignificante,
certo, ma parte di un tutto in cui ogni più piccola forma di vita
aveva un perché.
Amava
perdersi tra i sentieri più erti e scalare le colline oltre le quali
si affacciava il lago, blu e verde, perfettamente circolare e
placido.
Anita
indossò il golfino che aveva portato con sé: l’autunno era ormai
inoltrato e i primi freddi si facevano sentire.
Il
bosco era vibrante di vita; era certa di poter sentire la linfa
scorrere negli alberi, nutrimento terrestre. Ossigeno, magia e
mistero: il bosco non si smentiva mai.
Tornata
da poco dalla città, dove lavorava come insegnante, Anita sentiva la
mancanza della sua foresta, come un figlio che avverte quella della
propria madre. Non poteva resistere al richiamo di Madre Natura:
poteva spogliarsi di tutto il superfluo quando, come ora, si
accucciava ai piedi di un albero e restava in ascolto del mondo che
la circondava.
Il
respiro del vento fra le fronde, il cinguettio impazzito degli
uccelli, lo zampettìo curioso di una volpe che fece capolino da
dietro un cespuglio di ribes. Quattro cuccioli la seguivano,
fiduciosi.
Anita
non sentiva più suo il mondo che la circondava né riconosceva gli
abitanti come suoi simili. Tuttavia, a volte, sentiva di dover
appartenere a qualcuno oltre a se stessa, per non perdere la memoria
di ciò che era e sarebbe stata. Lottare contro se stessa non le
interessava più: erano stati gli anni più inutili quelli spesi a
essere ciò che non era. Era giunta ormai alla conclusione che
l’essenza non poteva essere rimpiazzata dall’apparenza.
L’abbaiare
di un cane la riportò alla realtà. Era un bel pastore scozzese, il
pelo lucido e il muso simpatico.
Anita
allungò la mano per farsi odorare e il cane avvicinò il tartufo
umido alle sue dita. Le leccò scodinzolando festaiolo.
«Dov’è
il tuo padrone?» chiese, carezzandolo tra le orecchie. «Quando ero
piccola avevo un cane come te, lo sai?»
«Diana!»
la voce stentorea di un uomo mise in allerta la cagnetta.
Un
giovane alto e dai colori dell’autunno sbucò da oltre un rovere,
lo sguardo sollevato per aver ritrovato l’animale.
Anita
si alzò lentamente e si avvicinò allo sconosciuto. Il cane corse
dal padrone, abbaiando gioioso.
«Eccoti
finalmente» rise di gusto lui, carezzandole la testa quando, su due
zampe, il cane gli appoggiò quelle anteriori sul petto. «Spero
Diana non l’abbia spaventata» disse poi, rivolto a lei.
Il
suo sorriso era gentile, luminoso.
«Il
suo cane è buonissimo» rispose Anita sorridendo a sua volta.
Gli
occhi di lui erano profondi e sinceri, distese di velluto scuro.
«Giacomo»
lui le tese la mano, un muscolo si contrasse all’angolo della
bocca.
«Anita»
Fu
una scintilla di pura energia quella che lei avvertì scorrerle lungo
la schiena.
Diana
scodinzolava ed uggiolava, irrequieta.
«La
sua mano è gelida» notò lui, racchiudendola nell’altra.
«Forse
dovevo indossare qualcosa di più pesante» si giustificò Anita,
portandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli.
«Posso
offrirle una cioccolata calda? Casa mia è a pochi passi» si offrì
Giacomo, guardandole le labbra.
«Grazie»
Anita annuì.
S’incamminarono,
in silenzio, calpestando foglie e ramoscelli, sprigionando odori di
sottobosco e frutti rossi.
«Anche
lei abita qui?» le chiese finalmente Giacomo, tornando a guardarla.
«No,
abito in città. Sono qui per il ponte di Ogni Santi. Sono
un’insegnante»
«Cosa
insegna?»
«Letteratura»
Restarono
in silenzio per il resto del tragitto e ad Anita piacque.
V’era
un’atmosfera sognante intorno a loro e parlare avrebbe potuto
guastarla. A volte è solo il silenzio l’unica parola necessaria.
La
casa di Giacomo era un’antica legnaia riconvertita in abitazione.
Completamente in legno, raccolta ed intima, sembrava la dimora di un
reame fatato.
Anita
si sentì subito a suo agio: percepiva energie positive in quella
piccola casa, con il caminetto acceso, una macchina da scrivere su un
tavolaccio di legno grezzo e il giaciglio del cane, un vecchio
cuscino rivestito di tartan.
Essenziale
eppure completa, colma di emozioni.
«Lei
scrive?» chiese Anita, andando verso il camino.
Era
infreddolita.
«Sì,
sono uno scrittore. Questo è il mio rifugio, quando non ho
ispirazione» ammise Giacomo, trafficando nel piccolo cucinotto, tra
i pentolini e la stufa a legna.
«Allora
ho invaso i suoi spazi, mi dispiace» Anita si sentì di troppo.
Giacomo
si voltò, le braccia conserte sulla polo blu. Sorrise dolcemente,
scuotendo impercettibilmente la testa.
«Non
appena le ho stretto la mano, ho avvertito un’energia positiva. E,
poi, sono stato io ad invitarla»
«Mi
conosce appena, come può dirlo?» Anita rise.
«Empatia»
lui fece spallucce, un sorriso in fondo agli occhi.
Anita
si limitò a sorridere: lei stessa si affidava all’istinto, come
una gatta selvatica.
«Si
accomodi, la prego» Giacomo tolse libri e fogli dalla sedia.
«A
cosa sta lavorando?» chiese Anita, sedendosi.
Giacomo
sospirò, tornando ai fornelli.
«È
la storia di un uomo che ha perso la strada… e non sa ritrovarsi.
Un pesce fuor d’acqua in un mondo di fango»
Anita
capiva perfettamente come Giacomo potesse sentirsi: lei stessa si
trovava ad affogare in quella melma.
«Il
protagonista ritroverà la strada?»
«Ancora
non lo so»
Giacomo
tornò al tavolo: portava due tazze di cioccolata fumante e delle
lingue di gatto, il tutto adagiato su un vassoio patchwork.
«Stia
attenta a non bruciarsi: è bollente» disse lui, togliendo dal
tavolo la macchina da scrivere.
«È
raro trovare chi scrive ancora con una Olivetti» disse Anita,
inzuppando un biscotto nella cioccolata.
«Odio
i programmi di scrittura sul PC, sa? Amo sentire il suono delle
lettere che s’imprimono sulla carta, come i nomi e i volti che
s’imprimono nella memoria» Giacomo si sporse un poco verso di lei,
gli occhi negli occhi.
Anita
abbassò lo sguardo e sorrise.
«Come
può non sapere la trama del suo romanzo?» chiese Anita.
Provava
una profonda curiosità per Giacomo e per il suo modo di scrivere,
così lontano da quello di molti scrittori.
«Non
scrivo mai una trama dettagliata e se lo faccio cambia nel tempo.
Loro, i miei personaggi, vivono con me» lui sorrise da oltre il
bordo della tazza. «Le sembrerò pazzo… ma io li sento. Mi parlano
di loro, mi raccontano la loro storia, io sono solo un tramite»
Anita
rise di gusto.
«No,
non la credo affatto pazzo, almeno non più della maggior parte degli
artisti»
Risero
insieme e anche Diana, accucciata sul cuscino, sembrò seguirli nella
loro ilarità, uggiolando e scodinzolando felice.
«Posso
scrivere per ore intere, senza mangiare o dormire. Quando sono
ispirato, non posso fermarmi» ammise Giacomo, prendendo un biscotto.
«E
ora che non ha ispirazione, cosa fa per scrivere?» Anita si appoggiò
allo schienale della sedia, osservandolo con curiosità.
Era
un uomo massiccio, atletico, ma emanava tenerezza e sensibilità.
«Mi
sforzo di scrivere, anche solo una riga al giorno: la continuità è
fondamentale. Esco, passeggio nel bosco, faccio meditazione» lui
alzò le spalle, forse un poco sconfortato.
«E
funziona?»
«Ancora
non lo so. Sono qui da pochi giorni»
Rimasero
in silenzio a lungo, sorseggiando la cioccolata in ascolto del bosco
e del mondo fuori dal rifugio. Il crepitio del fuoco e il respiro del
cane creavano un’atmosfera rustica, quasi fosse una isba russa dei
racconti di Turgenev.
«Vive
di soli libri?» chiese, rimestando la cioccolata nella tazza.
L’energia
emanata da Giacomo era talmente potente da sentirsene completamente
avvolta, come una coperta di calore e passione. Lo desiderava, voleva
sentire quell’emozione entrarle dentro e purificarla, come un fuoco
sacro.
«Sono
un professore universitario di Filosofia. Ho preso un anno sabatico:
non sapevo più se l’università fosse davvero la mia strada»
Giacomo bevve un sorso di cioccolata, un braccio piegato di traverso
sul tavolo.
«Allora
è lei il protagonista del romanzo» disse Anita
«Forse
sì. O forse è solo una parte di me. Devo ancora scoprirlo.» lui
abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle, quasi a volersi
ritirare in se stesso.
«L’ho
messa a disagio» Anita si sentì in colpa.
Spesso
dimenticava la delicatezza e l’attenzione verso il prossimo.
Giacomo
scosse la testa, alzando le spalle in un gesto di non curanza.
«È
una persona curiosa, non mi ha messo a disagio. Sono una persona
molto riservata»
Anita
avvertì una nota stonata nella sua voce. Lasciò il cucchiaino nella
tazza e fece per alzarsi, ma lui le prese una mano, il tocco
delicato.
«Vuole
restare per cena?» le chiese, uno spasimo alla gola.
Anita
sentì il fiotto di emozione di lui aprirle un varco nell’anima.
«Sì»
annuì, la voce un soffio.
Prepararono
la cena insieme, ascoltando un po’ di jazz e di swing, accorciando
le distanze tra di loro.
Cenarono
con polenta, formaggio e uova; Anita aveva preparato velocemente una
torta, sotto l’occhio esperto di Giacomo che si dichiarava un
ottimo cuoco. Era vero.
Lessero
poesie di Emily Dickinson dopo cena, alla luce del camino e di
qualche candela: Giacomo odiava la luce artificiale delle lampade.
Era
tutto così surreale, come vivere in un altro mondo. La connessione
emozionale con Giacomo superava anche il mero desiderio sessuale: era
la condivisione della conoscenza a unirli in modo così profondo. Ad
Anita sembrava di conoscerlo da sempre, come se i loro cammini
fossero stati destinati o incrociati fin dalla nascita.
«Nessuna vita è sferica
Tranne le più ristretta:
queste son presto colme, si svelano e hanno termine.
Le grandi maturano più lente,
come più a lungo oscillano sul ramo…
Sono lunghe le estati delle esperidi»
Lesse lei, sentendo già le lacrime pizzicarle gli occhi. «Mi perdoni. Mi emoziono per nulla»
«È proprio questo il suo lato più affascinante» Giacomo le prese il volto tra le mani e la baciò. Il contatto tra le loro lingue, umide e guizzanti, rese il desiderio ancora più acuto, quasi doloroso.
Salirono mano nella mano, nella camera da letto al piano superiore, continuando a baciarsi e a toccarsi, terre straniere. Lui la spinse gentilmente sul letto, togliendole pantaloni e mutandine. Affondò il volto tra le sue cosce, amandola con la bocca, le mani calde e gentili sui fianchi.
Anita si abbandonò a lui, aprendosi completamente, ansimando e gemendo, succube di ogni emozione. Lo sentì spogliarsi, il fruscio degli abiti sulla pelle, la penetrò dolcemente, gemendo contro le sue labbra.
Erano insieme, erano uniti con la mente e con il corpo. Cavalcarono insieme verso il piacere, finché non raggiunsero all’unisono l’acme, gridando nell’estasi finale. Rimasero abbracciati nel buio, i respiri in perfetta sintonia.
Anita si sentiva completa, assente il bisogno di fare domande. Era successo quel che doveva accadere e un senso di pace la pervadeva. Non voleva pensare, non voleva agire, tutto ciò che desiderava era state esattamente dov’era e vivere.
Domani tutto sarebbe finito, l’alba avrebbe portato via gli ultimi barlumi d’illusione e la vita, quella vera, sarebbe ricominciata a scorrere. Ma essere lì, ora, tra le braccia di Giacomo era l’unica realtà.
Il futuro era una proiezione delle proprie paure e debolezze, lo spettro di non poter essere ciò che voleva. Una gabbia del tempo.
Ferma e immobile, la felicità era qualcosa di fortemente vacuo ed instabile, uno stato d’animo più che una condizione dell’essere.
«Ci ricorderemo per molto tempo questa notte» sussurrò Giacomo, stringendola a sé. «Sì» annuì Anita, intorpidita dal languore.
«L’essenza stessa dell’uomo è nella memoria, Anita. Tutto ciò che siamo è frutto del ricordo» lui le baciò la fronte, guardandola negli occhi.
Si fece improvvisamente serio e ad Anita parve quasi d’intravedere il suo mondo, al di là delle sue iridi, muoversi sul fondo delle pupille dilatate.
Vi era entrata? Era riuscita almeno a sfiorarlo?
«Ognuno è un universo; ci muoviamo così velocemente e solo in poche occasioni possiamo davvero sfiorarci. Ed è questo sfiorarsi reciproco a fare la differenza. Ci sono persone che si illudono di poter entrare nel mondo dell’altro, di viverci senza perdersi. È sbagliato e pericoloso smarrire la via per seguire quella di un altro»
Giacomo ridacchiò. «Dovresti prendere la mia cattedra»
Si sfiorarono di nuovo, si unirono ancora e ancora, nella notte che sembrava infinita. Ma l’alba venne, dorata ed eterea.
Anita si lasciò Giacomo alle spalle, la scia di una galassia dentro di sé.
La felicità è una piccola cosa, stava a lei farne un grande ricordo.
«Nessuna vita è sferica
Tranne le più ristretta:
queste son presto colme, si svelano e hanno termine.
Le grandi maturano più lente,
come più a lungo oscillano sul ramo…
Sono lunghe le estati delle esperidi»
Lesse lei, sentendo già le lacrime pizzicarle gli occhi. «Mi perdoni. Mi emoziono per nulla»
«È proprio questo il suo lato più affascinante» Giacomo le prese il volto tra le mani e la baciò. Il contatto tra le loro lingue, umide e guizzanti, rese il desiderio ancora più acuto, quasi doloroso.
Salirono mano nella mano, nella camera da letto al piano superiore, continuando a baciarsi e a toccarsi, terre straniere. Lui la spinse gentilmente sul letto, togliendole pantaloni e mutandine. Affondò il volto tra le sue cosce, amandola con la bocca, le mani calde e gentili sui fianchi.
Anita si abbandonò a lui, aprendosi completamente, ansimando e gemendo, succube di ogni emozione. Lo sentì spogliarsi, il fruscio degli abiti sulla pelle, la penetrò dolcemente, gemendo contro le sue labbra.
Erano insieme, erano uniti con la mente e con il corpo. Cavalcarono insieme verso il piacere, finché non raggiunsero all’unisono l’acme, gridando nell’estasi finale. Rimasero abbracciati nel buio, i respiri in perfetta sintonia.
Anita si sentiva completa, assente il bisogno di fare domande. Era successo quel che doveva accadere e un senso di pace la pervadeva. Non voleva pensare, non voleva agire, tutto ciò che desiderava era state esattamente dov’era e vivere.
Domani tutto sarebbe finito, l’alba avrebbe portato via gli ultimi barlumi d’illusione e la vita, quella vera, sarebbe ricominciata a scorrere. Ma essere lì, ora, tra le braccia di Giacomo era l’unica realtà.
Il futuro era una proiezione delle proprie paure e debolezze, lo spettro di non poter essere ciò che voleva. Una gabbia del tempo.
Ferma e immobile, la felicità era qualcosa di fortemente vacuo ed instabile, uno stato d’animo più che una condizione dell’essere.
«Ci ricorderemo per molto tempo questa notte» sussurrò Giacomo, stringendola a sé. «Sì» annuì Anita, intorpidita dal languore.
«L’essenza stessa dell’uomo è nella memoria, Anita. Tutto ciò che siamo è frutto del ricordo» lui le baciò la fronte, guardandola negli occhi.
Si fece improvvisamente serio e ad Anita parve quasi d’intravedere il suo mondo, al di là delle sue iridi, muoversi sul fondo delle pupille dilatate.
Vi era entrata? Era riuscita almeno a sfiorarlo?
«Ognuno è un universo; ci muoviamo così velocemente e solo in poche occasioni possiamo davvero sfiorarci. Ed è questo sfiorarsi reciproco a fare la differenza. Ci sono persone che si illudono di poter entrare nel mondo dell’altro, di viverci senza perdersi. È sbagliato e pericoloso smarrire la via per seguire quella di un altro»
Giacomo ridacchiò. «Dovresti prendere la mia cattedra»
Si sfiorarono di nuovo, si unirono ancora e ancora, nella notte che sembrava infinita. Ma l’alba venne, dorata ed eterea.
Anita si lasciò Giacomo alle spalle, la scia di una galassia dentro di sé.
La felicità è una piccola cosa, stava a lei farne un grande ricordo.
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